La Questione Romantica > Organicismo/Meccanicismo

Paola Colaiacomo

E’ risaputo come nel capitolo ventiduesimo della Biographia Literaria Coleridge, da fine osservatore e studioso della fenomenologia della mente e del linguaggio nella loro complessa rete di interrelazioni, si «avventuri» – la parola è sua – ad indicare come prova definitiva di stile poetico impeccabile l’«intraducibilità» delle parole di una poesia in altre della stessa lingua:

In poetry, in which every line, every phrase, may pass the ordeal of deliberation and deliberate choice, it is possible, and barely possible, to attain that ultimatum which I have ventured to propose as the infallible test of a blameless style, namely its untranslatableness in words of the same language without injury to the meaning

[COLERIDGE 1983, II, p. 142].[1]

Egli sta a quel punto passando in rassegna le «bellezze» (excellencies) della poesia di Wordsworth, tra le quali colloca al primo posto l’«austera purezza della lingua», così dal punto di vista grammaticale come da quello logico, ovvero «una perfetta proprietà di significato». Tuttavia, si affretta ad aggiungere, con una precisazione che, caratteristicamente, allarga, più di quanto non restringa, il campo dell’indagine, per «significato» (meaning) di una parola intende tutte le associazioni che essa richiama, non semplicemente il suo «oggetto corrispondente»:

Be it observed, however, that I include in the meaning of a word not only its correspondent object, but likewise all the associations which it recalls. For language is framed to convey not the object alone, but likewise the character, mood and intentions of the person who is representing it.

Oggetto vale classicamente per tutto ciò – cose, ma anche idee o pensieri – cui la parola in tanto corrisponde in quanto se lo trova objectum, quasi materialmente gettato dinanzi; e in maniera così vivida ed esclusiva che, a quell’incontro, essa non può che rispondere in maniera consonante. E’ con tale consecutività che Coleridge vuole rompere quando tra la parola e il suo oggetto fa apparire, tertium imprescindibile, la variabile del meaning: a mediare, ma anche ad articolare in maniera assai più complessa la successione delle cause e degli effetti.
Si noti come il legame che qui Coleridge stabilisce tra wordobject non sia né quello di una prensilità immediata – e come potrebbe esserlo? – né quello di un arbitrario convenzionalismo. In un caso come nell’altro, non si sarebbe trattato che di una forma di necessità, e dunque di una differente gradazione di materialismo. Tale ingenuo determinismo non corrisponde affatto all’idea che egli ha della lingua, tanto meno della lingua poetica.
Tra la parola e l’oggetto Coleridge interpone, a complicare una relazione troppo meccanica, il livello del «significato» (meaning) . II meaning non inerisce né alla parola in se stessa, né – e questo forse e più ovvio – all’oggetto al quale la parola si riferisce. Tuttavia è innegabile che il meaning in qualche modo tocchi l’oggetto: esso di fatto tocca l’oggetto – il mondo, possiamo dire – soltanto in quanto tocca allo stesso tempo il soggetto. II mean-ing e primariamente una volontà di significare, un’intenzione che il soggetto ha di trasmettere il proprio carattere, il proprio stato d’animo, la propria volontà, attraverso le parole che usa. Niente di più di questo.
Mediante le parole – qualcosa cioè che appartiene già alla lingua – qualcosa che e sempre già lì prima che incominci a parlare, il poeta certamente non raggiunge l’oggetto esterno – anch’esso del resto sempre già lì – nemmeno quello che potrebbe considerarsi un oggetto esterno di tipo assolutamente particolare: una poesia, o una serie di poesie, preesistenti. Questo rimane vero, nonostante l’esplicita disposizione, da parte del componimento nuovo venuto, a stabilire una relazione coi propri antenati: ad aprire con loro un dialogo, entrando in un tipo del tutto particolare di conversazione. Malgrado la sua disposizione, cioè, a stabilire un legame, se non apertamente di tipo traduttivo, certamente con la traduzione – con la sua idea implicita di un trasferimento, di un trasloco o trasporto delle parole – assai strettamente imparentato.
Perché, e in questo è tutto il punto, se le parole di una poesia fossero così facilmente raggiungibili, come «oggetti corrispondenti», da parte di quelle di altre poesie, perché non dovrebbero essere altrettanto facilmente alla loro portata una scena naturale, un volto, o un’emozione? E’ paradossale, ma vero: una volta che il principio dell’intraducibilità delle parole di una poesia in altre appartenenti alla stessa lingua sia stato stabilito, va riconosciuto che proprio quell’intraducibilità e strettamente imparentata con la disposizione della lingua poetica a significare. E’ precisamente perché v’è in esso questa spinta a trasmettere soprattutto uno stato d’animo, che il linguaggio – e in forma ancor più intensificata il linguaggio poetico – e prima di tutto un’intenzionalità, precisamente un meaning .
Carattere, umore, intenzioni, sono quanto non si trova già lì, quando il soggetto incomincia a parlare poeticamente. II meaning viene immesso nel mondo, tramite la parola, proprio perché il mondo, fino a quel momento, non lo contiene. E al livello del meaning che la lingua si rivela per quello che è: forza produttiva, non riproduttiva. Nessuna meraviglia che le parole di una poesia, ossia il suo significato, non possano essere spostate, mutate, sostituite – la traduzione essendo una somma di tutte queste operazioni -senza perdita o danno. Solo in quelle parole, e non in altre, quel particolare meaning esiste nel mondo.
E’ importante osservare come il meaning non coincida ne con la nozione di significante né con quella di significato. Coleridge si arresta al di qua della dottrina del segno, con le sue ovvie implicazioni di dualismo: di spirito e materia, suono e senso, mente e corpo. In tutte le cose, temporali e spirituali, suo punto d’arrivo ideale è l’unità: unity, o oneness. Come pura intenzionalità, il meaning, con la sua concomitante untranslatableness, non può essere distaccato dalle parole che il soggetto pronuncia. Piuttosto, esso connette quel soggetto al mondo esterno.
Si può intendere la portata dello spostamento che le parole di Coleridge presuppongono, richiamandosi all’Essay upon Human Understanding di Locke, il cui III libro, «Of Words», costituisce uno dei testi fondamentali per la filosofia illuministica del linguaggio – fino alla parziale rottura che se ne ebbe con Rousseau – e uno dei principali punti di riferimento negativi, impliciti o espliciti, di ogni meditazione romantica sulla lingua degli uomini e sulle leggi del suo funzionamento. A proposito del nesso di significazione, si legge in Locke:

Thus we may conceive how words, which were by nature so well adapted to that purpose, came to be made use of by men as the sign of  their ideas : not by any natural connexion that there is between particular articulate sounds and certain ideas, for then there would be but one language amongst all men; but by a voluntary imposition whereby such a word is made arbitrarily the mark of such an idea The use, then, of words is to be sensible marks of ideas, and the ideas they stand for are their proper and immediate signification. […] words, in their primary or immediate signification, stand for nothing but the ideas in the mind of him that uses them, how imperfectly soever or carelessly those ideas are collected from the things which they are supposed to represent. When a man speaks to another, it is that he may be understood; […] But when he represents to himself other men’s ideas by some of his own, if he consent to give them the same names that other men do, it is still to his own ideas: to ideas that he has, and not to ideas that he has not [LOCKE, III, iii, pp. 1-2 passim; ii, p. 12].

La signification è qui pensata come avente inizio, idealmente, solo dopo che la coppia parola-idea si è costituita. La parola «significherebbe» anzi precipuamente proprio la saldezza di quell’unione che la precede e la autorizza. Si noterà come il complesso concettuale legato alla significazione venga abolito da Coleridge il quale, coerentemente, non parla più di signification, ma di meaning. E basterebbe già la diversa suffissazione delle due parole – mean-ing, significat-ion – a evidenziare lo spostamento che si è attuato da una concezione del significato come valore inerente alla parola e oggettivamente in essa riscontrabile, a quella della parola come energia liberamente immessa dal parlante nella conversazione, che è civile esercizio di convergenza e circolazione di forze psichiche e intellettuali.
Se nel significato (meaning) di una determinata parola vengono fatti rientrare «il carattere, l’umore e le intenzioni» del soggetto che la sta usando, si capisce come quella parola non possa mai del tutto coincidere con un significato stabilito a priori. Non possa esser sentita soltanto come marca distintiva, come nome, dell’idea. Con Milton, Coleridge ripete:

The meaning, not the name I call [MILTON 1975, VII, v. 5].

Una volta spostato l’accento sul meaning a scapito della signification, la parola non sta più in rapporto di causa/effetto con la cosa, nemmeno con quella cosa del tutto particolare che è l’idea della quale funzionerebbe, secondo la linguistica lockiana, come semplice segnale di richiamo. E’ un mero sophisma pigrum quello che convalida tale modo di pensare sulla base della falsa evidenza del senso interno:

By the very same argument the supporters of the Ptolemaic system might have rebuffed the Newtonian, and pointing to the sky with self-complacent grin have appealed to common sense whether the sun did not move and the earth stand still [COLERIDGE 1983,1, pp. 138-39].

La parola si applicava all’idea, in Locke, per volontaria imposizione. E l’idea conosceva il mondo «raccogliendolo» o «collezionandolo» dalle cose: «how imperfectly soever or carelessly those ideas are collected from the things which they are supposed to represent». Era dunque postulato come immanente alla lingua un sistema di temporalità sempre posteriore, che non ha più ragion d’essere una volta che alla parola non si attribuisca più, rispetto all’idea, quel sia pur minimo ritardo temporale che è invece ineliminabile da un legame di tipo causativo, o giustappositivo. Non stando per l’idea, non essendo dell’idea il segno, ne il nome, la parola non è sopravveniente all’idea. Come energia immaginativa originariamente immessa nel mondo dal parlante, essa non intrattiene col mondo esterno alcun rapporto di consecutività.
Potrebbe sembrare che lo spostamento da Coleridge qui attuato sia a favore di un uso del tutto soggettivo della lingua, svincolato dal patto comunicativo. Aperto, al fondo, ad ogni avventura; bordeggiante l’irrazionalità, l’irresponsabilità di una parola intesa come automatica risposta allo stimolo della passione. Di una parola fatta pura sonorità, magari registrata nella scrittura. Così intesa, la parola non sarebbe niente di più che il verso dell’uomo e, più che aprirlo al mondo della comunicazione e della sociale conversazione, lo rinchiuderebbe, proprio in quanto parlante, entro i limiti di una risposta preordinata all’interno di una capacita reattiva data. II massimo di libertà espressiva i parlanti lo esplicherebbero allora mediante apposizione di segno negativo al nome, o al verbo, i quali sarebbero per loro natura sempre affermativi, in quanto sempre riconducibili agli stimoli sensoriali provenienti dal mondo esterno. La parola non sarebbe allora che il sigillo finale di tale insuperabile claustrazione nel sensibile.
Si avrebbe la lingua mutila degli Houyhnhnms di Swift, il quale proprio attraverso quell’immortale invenzione aveva trovato il modo di insinuare la propria critica corrosiva alla concezione lockiana del linguaggio. Ma Coleridge si muove lungo percorsi più moderni, legati semmai alla nuova filosofia idealistica, abbandonando definitivamente la maniera dei grandi precursori settecenteschi, come Swift e Sterne, i quali avevano sviluppato le loro posizioni sulla linguistica lockiana mediante radicalizzazione ed estremizzazione satirica delle premesse implicite in quella filosofia del linguaggio, alla quale del resto esplicitamente si richiamano.
Ora Coleridge vuol dimostrare che proprio quel realismo «tolemaico» che tanto saldamente sembrava legare la parola al mondo, suo centro visibile secondo ogni evidenza dei sensi, di fatto lavorava all’effetto, esiziale per la comunicazione, di una chiusura derealizzante tra i fantasmi della pura soggettività. Proprio quel preteso realismo era idealistico, ma in senso del tutto negativo: non secondo l’accezione al momento in cui egli scrive ormai storica del termine, bensì secondo quella, non tecnica e apertamente dispregiativa, che esso assume nel parlare comune.

The hypothesis of an external world exactly correspondent to those images or modifications of our own being which alone (according to this system) we actually behold, is as thorough idealism as Berkeley’s, inasmuch as it equally (perhaps, in a more perfect degree) removes all reality and immediateness of perception and places us in a dream-world of phantoms and spectres, the inexplicable swarm and equivocal generation of motions in our own brains [COLERIDGE 1983, I, p. 137].

Nell’aspirazione lockiana a fare della parola, sempre più rigorosamente, il segnale o marchio dell’idea, ripulendola da ogni infiltrazione di indebito soggettivismo, a garanzia della sua affidabilità come strumento di conoscenza della realtà esterna – aspirazione che è alla base anche del progetto della Royal Society – Coleridge individua il germe di uno scetticismo, di un idealismo, come già in Hume e in Berkeley, che gli appaiono profondamente intrisi di volgare materialismo. Un materialismo di cui ritrova gli sviluppi finali nell’associazionismo hartleyano. Tuttavia egli non sviluppa la sua critica al realismo di lockiana ascendenza nei modi dell’accentuazione satirica delle premesse, quei modi che erano già stati sperimentati e utilizzati fino agli esiti logici finali dai grandi scrittori del secolo precedente, come Swift e Sterne.
Né va a questo punto sottovalutata la circostanza che la sua educazione scolastica pre-universitaria – ormai certamente lontana nel tempo, ma vivida nella memoria – fosse stata prevalentemente di tipo linguistico. E l’idea stessa di un’educazione umanistica, o filosofica, come educazione essenzialmente linguistica – con l’accurato addestramento che questa comporta nelle lingue vive e morte – è basata su, e conduce verso, il postulato della inamovibilità, dunque della sostanziale intraducibilità della parola, così come essa viene ritrovata intessuta in un testo.
Nel capitolo I della Biographia Literaria, Coleridge da conto del proprio addestramento ai classici, dello studio minuzioso al limite del pedantesco delle peculiarità lessicali, grammaticali e sintattiche dei maggiori poeti e prosatori latini e greci, secondo quanto richiesto dall’insegnante, cui in via un postumo pensiero di gratitudine. I suoi scolari, dice, giungevano tutti all’università già «eccellenti classicisti e passabili ebraisti». II reverendo James Bowyer fondava il proprio insegnamento sul costante esercizio della traduzione e dell’analisi lessicale e sintattica dei testi letterari, secondo l’implicita premessa della reciproca comparabilità delle lingue, e di una circolazione, tramite le lingue, delle letterature antiche e moderne:

At the same time that we were studying the Greek Tragic Poets he made us read Shakespeare and Milton as lessons […] I learnt from him that Poetry, even that of the loftiest, and, seemingly, that of the wildest odes, had a logic of its own, as severe as that of science; and more difficult, because more subtle, more complex, and dependent on more and more fugitive causes. In the truly great poets, he would say, there is a reason assignable, not only for every word, but for the position of every word; and I well remember, that availing himself of the synonimes to the Homer of Dydimus, he made us attempt to show, with regard to each, why it would not have answered the same purpose, and wherein consisted the peculiar fitness of the word in the original text [COLERIDGE 1983, I, p. 9].

La parola della poesia, più difficile di quella della scienza perché dipendente da cause persino più sfuggenti, di tanto più sottile e complessa di quella che osserva la natura di quanto più sottile e complessa e la tessitura dell’animo umano, ha tuttavia la grazia di un’assoluta presenza a se stessa. Più che stare per l’idea nella mente di chi la usa, si può dire che sia essa stessa quell’idea resa immediatamente sensibile. Shelley, nella Defence of Poetry, userà l’immagine del carbone che, sul punto di spegnersi, brilla di un’accensione improvvisa, come animato da soffio interiore:

the mind in creation is as a fading coal, which some invisible influence, like an inconstant wind, awakens to transitory brightness; this power arises from within, like the colour of a flower which fades and changes as it is developed [SHELLEY 1988, p. 294].

Lo studio precoce e prolungato della poesia antica e moderna adeguatamente prepara il futuro critico e poeta che e il Coleridge liceale, al ripudio, consumato in età matura, di quella concezione che voleva la parola sempre postuma rispetto all’idea, sempre soltanto il segno, la marca sensibile, di essa. Così può avvenire che un curriculum di rigorosa educazione linguistica, tutto imperniato sulla traduzione e l’analisi comparata dei testi classici, raggiunga il suo apice di penetrazione intellettuale, per una sorta di logico paradosso, nell’identificazione della particolare forma di inamovibilità e insostituibilità incidente alla parola poetica. Perennemente ripiegata su se stessa, quella parola non può additare infatti altro che se stessa. Per la via di un empirismo fenomenologico, adottato in funzione squisitamente didattica, si giunge a toccare un dato strutturale universalmente valido:

I was wont boldly to affirm, that it would be scarcely more difficult to push a stone out from the pyramids with the bare hand, than to alter a word, or the position of a word, in Milton or Shakespeare, (in their most important works at least) without making the author say some thing else, or something worse, than he does say. [COLERIDGE 1983, I, p. 23].

Coleridge ricostruisce così a posteriori come vera e propria fictio narrativa, la sua analisi della natura e della costituzione del linguaggio poetico: ed è in questo senso che un capitolo come il I della Biographia Literaria, per larga parte composto di ricordi e rievocazioni personali, rientra a pieno titolo – senza cioè che questo implichi alcun cedimento intimistico – in una trattazione che vuol essere di teoria letteraria. L’autobiografia assurge qui a metodo: l’autobiografismo può esplicare anzi un massimo di potenziale conoscitivo, poiché l’oggetto da conoscere coincide – come del resto e anche in Wordsworth – con la mente stessa del poeta. The growth of the poet’s mind è tema e fabula della Biographia Literaria non meno che del Prelude.
L’educazione della mente alla poesia, negli anni adolescenziali della formazione scolastica, è degna di essere osservata e ricostruita dal poeta maturo in quanto quella mente era già per sua natura poetica, già fin dall’inizio, magari inconsapevolmente, laboratorio di lingua poetica. Da questo punto di vista, l’affermazione dell’intraducibilità delle parole di una poesia in altre della stessa lingua, si presenta, giunti pressoché alla conclusione di un’opera che può apparire a prima vista digressiva e divagante, come il degno coronamento di un’architettura perfettamente calcolata in ogni suo elemento.
II lungo excursus di carattere filosofico, che porterà, alla fine del tredicesimo capitolo della Biographia Literaria, alla celebre disambiguazione delle due funzioni mentali distinte rispettivamente come fancy e imagination, si apre nel quinto con la rilevazione, non che di una naturale affinità tra le cose e i pensieri, di una loro, altrettanto naturale, disuguaglianza. Viene lì enunciata una impensata, perché in certo senso fin troppo ovvia, naturale differenza della cosa dal pensiero.

These conjectures, however, concerning the mode in which our perceptions originated, could not alter the natural differences of things and thoughts [COLERIDGE 1983,1, p. 90].

L’affinità era implicita nel rapporto di significazione di tipo lockiano, nel quale il segno era davvero supposto afferrare il suo oggetto e farsene carico, in quanto venivano postulati una sorta di predisposizione naturale, e di perfetto adattamento, della parola all’idea, o rappresentazione interfere, dell’oggetto esterno. E proprio questo innesto così facile della parola sull’idea, nella progressiva perdita di presenza della cosa, ridotta a segnale, quasi a segnaposto, delle cose esterne, presenze inconoscibili e perciò minacciose, era stato estremizzato da Sterne fino alla parodia nel Tristram Shandy. Si pensi al rapporto di Uncle Toby con la guerra, tutto mediato attraverso modellini di macchine belliche e ricostruzioni miniaturizzate degli spostamenti di truppe e delle postazioni d’assalto nelle battaglie.
E’ uno strategico passo indietro, quello che riporta Coleridge dalla lockiana «idea», che della cosa era gia l’immagine mentale decorporeizzata, alla cosa nella sua insignificanza non sollevata dal verbo, ovvero all’oggetto mondano e corruttibile. Proprio quella differenza, e ora da lui vista far blocco contro un troppo facile scivolamento dalla cosa nella parola per il tramite dell’idea. Anche alla cosa e dunque immanente un proprio grado di intraducibilità. L’uscita dal meccanicismo associazionistico ha come ideale punto d’avvio un’accentuazione di materialismo, uno sguardo più rispettosamente posato sulla cosa, sulla sua invincibile resistenza a lasciarsi trapassare e sorpassare dalla parola.
Ed e da questo tipo di posizione realistica, letteralmente di attenzione alla cosa in quanto res, che Coleridge si apre la strada verso quella tesi della consustanzialità di parola e pensiero, che in modi diversi influenza tutta la riflessione sulla lingua degli uomini implicita nel suo lavoro di critico e di poeta. Non per niente egli accarezza a lungo, pur senza mai attuarlo, il progetto di una trattazione ampia e sistematica del«PRODUCTIVE LOGOS human and divine» [COLERIDGE 1983, I, p. 136] da svilupparsi in forma di commentario e introduzione al Vangelo di Giovanni.

Ed è nella poesia, che la consustanzialità di parola e pensiero appare massimamente evidente:

Poetry […] is purely human – all its materials are from the mind, and all the products are for the mind. […] and thus elevates the Mind by making its feelings the Objects of its reflection […] [COLERIDGE 1973, III, p. 4397 f48].

Che se, al contrario, l’idea di quella consustanzialità dovesse esser ripudiata, cosa sarebbe il pensiero se non appunto un «oggetto» nel quale l’occhio interiore si imbatterebbe e che la lingua nominerebbe, ma secondo un meccanicismo che, ben lungi dall’elevare la mente, rimarrebbe nel suo fondamento del tutto privo di spiegazione?

It would be easy to explain a thought from the image on the retina, and that from the geometry of light, if this very light did not present the very same difficulty. We might as rationally chant the Brahmin creed of the tortoise that supported the bear that supported the elephant that supported the world, to the tune of «This is the house that Jack built» [COLERIDGE 1983, I, pp. 137-38].

La verità, ragiona Coleridge, è che nell’analisi del funzionamento della mente ogni meccanicismo, per quanto in apparenza oggettivamente fondato sul dato a prima vista semplice e oggettivamente riscontrabile della cosiddetta realtà delle cose, su altro non riposa che sull’accettazione passiva del «dispotismo dell’occhio» [COLERIDGE 1983, I, p. 107]. Falsa conclusione, come falsa nei fatti si dimostra la percezione comune, essa pure apparentemente oggettiva, in quanto avvalorata dall’esperienza dei sensi, che sia la terra a star ferma e il sole a girarle attorno. Allo stesso modo, ogni teoria che, come quella hartleyana, voglia dar ragione delle idee secondo lo schema di una pretesa corrispondenza tra gli oggetti esterni e le «appropriate configurative vibrations» [Coleridge 1983, I, p. 108] che essi susciterebbero nella mente dell’osservatore, cade proprio in base a quel principio del primato dell’oggetto di cui pretende di farsi portatrice.
L’ammissione dell’insuperabile alterità della cosa rispetto al pensiero, infatti, fa emergere in modo definitivo l’incapacità dell’associazionismo di dar veramente ragione dei fatti della mente. Immaginiamo che realmente si producano delle vibrazioni, che denomineremo a ed m in quanto rispettivamente corrispondenti agli oggetti A ed M, e che esse si saldino tra loro in base ad una pretesa legge della simultaneità: resta comunque da spiegare come mai la temporalità del tutto meccanica dell’oggetto entrerebbe in comunicazione con quella del soggetto percipiente, dal quale propriamente scaturisce la nozione di simultaneità, estranea alle cose. L’aggancio tra le «cose» e i «pensieri» permarrebbe comunque inspiegato. E’ lì il vero problema di ogni meccanicismo associazionistico. E nell’enigma di quel contatto il suo tallone d’Achille.
Che se si volesse rispondere, riflette Coleridge, che per dar conto di tale contraddizione, va tenuta presente la «circostanza della vita», dove andrebbe a finire l’invocata «filosofia meccanica»? [COLERIDGE 1991, p. 89]. What becomes of mechanical philosophy davvero, se proprio l’ipotesi di un mondo esterno esattamente corrispondente alle configurazioni e modificazioni interne al nostro essere e solo da noi stessi contemplabili, finisce col togliere realtà e immediatezza alle nostre stesse percezioni, e col collocarci in un mondo onirico, popolato degli spettri e dei fantasmi equivocamente generati dai moti del nostro cervello?
Dalla cosa non si arriva dunque mai alla parola secondo una concatenazione causativa di passaggi. Lo stacco che separa il pensiero e il linguaggio dalla pretesa realtà esterna, della quale non è né la copia né il segno, si manifesta come oggetto reale, degno d’attenzione. Come oggetto mentale, e a propria volta naturale – perché «naturale» e la differenza «di pensieri e cose» – da studiarsi in quanto tale. Ma senza caduta nel relativismo o nel solipsismo delle posizioni estreme. Senza che la realtà esterna venga svalorizzata come nell’esse est percipi berkeleyano. La percezione della «natural difference of things and thoughts» porta ora invece all’attenzione la realtà della mente, la necessità di una migliore conoscenza delle leggi del suo funzionamento.
La circostanza della vita e così vista fornire un campo di studio e di conoscenza proprio nella sua imprevedibilità e singolarità sempre ripetute. Imprevedibilità e singolarità che sono esse stesse natura – natura umana -sicché conoscerle e di fatto contribuire a una migliore conoscenza della natura. Ma secondo le leggi e i modi di una fenomenologia della conoscenza completamente diversa da quella che si applica alla natura, e capace, proprio per tale sua diversità, di rimettere in gioco la scienza stessa della natura non umana, non coscienziale.
Perché è evidente che dal momento in cui quella naturale diversità delle cose e dei pensieri è stata rilevata, il paradigma della conoscenza della mente non potrà più assumere la configurazione della corrispondenza: ovvero dell’adeguamento, sia pur perfetto e simultaneo, del pensiero alla cosa. Ovvero di una risposta al mondo esterno che rimanga compresa nella struttura copia/modello. Ora invece, a Coleridge, persino ciò che comunemente si definisce come «copia» appare semmai partecipe dell’irripetibile impulso creativo che è all’origine del modello: anche il copista della Trasfigurazione, scrive, deve riprodurre dentro di sé, più o meno imperfettamente, il processo di Raffaello [COLERIDGE 1991, p. 110].

Non la vita come modello, allora, sempre implicante l’adeguamento della copia, ma la vita stessa, una irripetibilità, uno fra i milioni di casi possibili: e quello l’oggetto precipuamente da conoscere. Una semplice circostanza, uno stare attorno, un’approssimazione al centro, senza che necessariamente si dia centro. Viene in mente la famosa similitudine di Conrad, applicata a Marlow:

to him the meaning of an episode was not inside like a kernel but outside, enveloping the tale which brought it out only as a glow brings out a haze, in the likeness of one of these misty halos that sometimes are made visible by the spectral illumination of moonshine [CONRAD 1960, p. 3].

Emerge un’inedita configurazione della temporalità: non raccolta dalle cose e ad esse applicata, ma prodotta dall’interno dello stesso soggetto conoscente. In questo sistema della temporalità che, come l’immaginazione, come la coscienza, ha alla base un impulso produttivo, vuoto di contenuto preesistente, affiora l’essenza del tempo:

The act of consciousness is indeed identical with time considered in its essence [COLERIDGE 1983,1, p. 126].

Tempo puro, non misurato dall’orologio della quotidianità, è quello che coincide con l’azione della coscienza. In quell’esperienza profonda, singolare, ricca dei tratti della casualità, il nesso di parola e pensiero si da in una simultaneità tutta interna alla mente, che sperimenta se stessa come intenzionalità, ovvero come meaning, come verbalità. Nell’atto del pensiero, la mente fa l’esperienza di se stessa come pensiero. In quell’apparente tautologia è la legge stessa della sua produttività. Da quell’ autoconoscersi deriva «la parte migliore del linguaggio umano»:

The best part of human language, properly so called, is derived from reflection on the acts of the mind itself [COLERIDGE 1983, II, p. 54].

La mente, medium e filtro alla conoscenza del mondo, la mente che produce il mondo a propria immagine e somiglianza, quasi in estroflessione dei propri apparati di pensiero e l’oggetto, anch’esso mondano, da conoscere. l’insormontabile difficoltà di ogni associazionismo e così superata: non per contatto, per un atto cioè di nominazione a posteriori, avviene l’aggiogamento della cosa al pensiero, della parola alla cosa, perché l’essenza del pensiero e sempre già parola. Non c’e alcun bisogno di sforzarsi a ricostruire gli impossibili passaggi per i quali la parola arriverebbe ad afferrare la cosa. O ancor meno, fallito questo tentativo, di postulare una realtà che, aliena e inconoscibile in sé, invierebbe tuttavia al soggetto i suoi fantasmi, i suoi pallidi emissari, sotto l’equivoca forma di percezioni e sensazioni.
La «naturale differenza di pensieri e cose» si propone ora in se stessa come nuovo oggetto della conoscenza. Di quella «differenza», la parola è al tempo stesso l’immagine e la facoltà produttiva. All’atto della percezione e infatti immanente un potenziale produttivo che la solleva ben oltre il meccanicismo della copia:

The rules of the IMAGINATION are themselves the very powers of growth and production [COLERIDGE 1983, II, p. 84].

II nome del logos produttivo è poesia. La parola produce il mondo, e copia in minore del logos divino che lo crea.

The primary imagination I hold to be the living power and prime agent of all human perception, and as a repetition in the finite mind of the eternal act of creation in the infinite I AM [COLERIDGE 1983,1, p. 304].

L’immaginazione agisce la percezione, presiede al suo prodursi, creando le condizioni perché percezione possa darsi. In questo l’immaginazione e sempre primaria, poiché non ammette nient’altro prima di se, se non l’atto divino della creazione. Solo di quell’atto essa e ripetizione. Così l’immaginazione produttiva, energia che culmina nel logos umano, non copia ma istituisce il mondo.
Nessuna meraviglia che proprio laddove la parola più intensamente si manifesta come pura vis imaginative, nella poesia cioè, essa sviluppi anche un massimo di resistenza al cambiamento. In una data lingua, la parola della poesia segna sempre la punta avanzata di un meaning, di un voler dire. E un’intrinseca necessità, dunque, a renderla non ulteriormente traducibile, trasportabile, alterabile: in nessuna maniera amovibile.

Proprio di questa stessa «ostinazione» della lingua è figura il blakiano Los di Jerusalem:

Los built the stubborn structure of the Language, acting against Al­bion’s melancholy, who must else have been a Dumb despair [BLAKE 1971, plate 40, vv. 59-60; K 668].

E con un movimento di autonominazione, di autocreazione metapoetica, Blake chiarisce come ci si riferisca qui a una lingua ben specifica: «English, the rough basement» [Ibid., v. 58]. II «rozzo basamento» sul quale Los edifica è l’inglese; è con la lingua inglese, che egli sta costruendo la lingua sovranazionale della poesia, nella quale quella concreta datità storica entra come condizione necessaria. Contro il mutismo della melanconia, che è ricaduta nei fantasmi del corporeo, resa senza speranza ad essi, Los innalza la struttura rigida, resistente, della lingua inglese.
Lo sguardo coraggiosamente posato sulla diversità di pensieri e cose, aveva rilevato come fosse

a mere delusion of the fancy to conceive the pre-existence of the ideas in any chain of association as so many differently colored billiard-balls in contact, so that when an object, the billiard-stick, strikes the first or white ball, the same motion propagates itself through the red, green, blue, black, &c. and sets the whole in motion [COLERIDGE 1983,1, p. 108].

Posto il problema in questi termini, si capiva bene perché nessuna analisi associazionistica avesse mai potuto dar ragione di quel «contatto», e ne avesse anzi solo moltiplicato e complicato le gradazioni, fintanto che esso non era apparso come la sommatoria di passaggi sempre più numerosi ed invisibili, di inesplicabili «gaps of fancy». II «dispotismo dell’occhio» si era così manifestato nell’insofferenza perché «le cose invisibili non formano l’oggetto della visione interiore» [COLERIDGE 1991, p. 107], e nella risibile illusione di quanti avevano creduto che, se solo l’organo della vista fosse stato più potente, le cause ultime della natura sarebbero affiorate nitide, per successiva gradazione e approssimazione, sulla superficie del visibile: di costoro già Gulliver era stato additato come lo sconfitto campione. Viene in mente la sdegnosa ripulsa blakiana di tale ingenuo materialismo d’organo in A Vision of the Last Judgment (1810):

I question not my Corporeal or Vegetative Eye any more than I would Question a Window concerning a Sight. I look thro’ it & not with it [BLAKE 1971, K 617].

Per Coleridge poeta e filosofo della lingua, sottrarsi al materialismo implicito nell’associazionismo significava fondare la critica letteraria su basi filosofiche, analizzarne il lessico potenzialmente riconducendo ciascun termine alla facoltà della mente impegnata nell’attività che esso designa. In tale dispiegamento della propria generica funzione gnoseologica, la critica era vista giocare la massima chance ad essa data di afferrare concettual-mente la genesi dell’opera d’arte. Era questo per il teorico e critico romantico il punto cruciale, la massima difesa a lui accessible contro il «dispotismo dell’occhio».
Se le parti migliori della lingua derivano da atti di riflessione della mente su se stessa, desinonimizzare – togliere cioè ambiguità e sovrapposizioni di significato appropriando correttamente i termini critici, e applicando parole diverse a quelle che son riconosciute come operazioni mentali diverse, doveva di necessità equivalere a predisporre gli strumenti per una migliore conoscenza del funzionamento della mente umana. Coleridge vuole raggiungere una visione il più possibile nitida dell’operazione mentale che presiede alla creazione poetica, poiché si può supporre che in essa la mente pervenga, nello specchio ideale offertole dalla parola intraducibile della poesia, a un grado massimo di autopercezione.
E gioverà ricordare, a questo punto, come il lavoro di desinonimizzazione pur esercitato, nella sua occorrenza di massima tensione intellettuale, su una ricchezza di materiale linguistico che era a sua volta il portato di uno scambio e di una confluenza secolare di espressioni – intendo riferirmi alla disambiguazione, fondante per tutta la critica moderna, di fancy ed imagination – movesse pur sempre, nella Biographia Literaria, da un’osservazione sulla derivazione dalle lingue antiche, per traduzione o addirittura per calco, dei termini critici in questione:

Repeated meditations led me first to suspect, (and a more intimate analysis of the human faculties, their appropriate marks, functions, and effects matured my conjecture into full conviction) that fancy and imagination were two distinct and widely different faculties, instead of being, according to the general belief, either two names with one meaning, or at furthest, the lower and higher degree of one and the same power. It is not, I own, easy to conceive a more apposite trans­lation of the Greek Phantasia, than the Latin Imaginatio but it is equally true that in all societies there exists an instinct of growth, a certain collective unconscious good sense working progressively to desynonymize those words originally of the same meaning, which the conflux of dialects had supplied to the more homogeneous languages, as the Greek and German; and which the same cause, joined with accidents of translation from original works of different countries, occasion in mixt languages like our own [COLERIDGE 1983,1, pp. 82-83].

II lavoro di desinonimizzazione conduce così ancora una volta sulla soglia della scoperta di una non ulteriore traducibilità, di una forzata inamovibilità dei termini critici moderni. II territorio inesplorato della mente, che la disambiguazione della coppia fino a quel momento sinonimica di fancy ed imagination ha aperto, assume la configurazione di una nuova untranslatableness, sia pur diversa da quella della poesia.
La mente muove dal riconoscimento della differenza e va verso l’uno, giungendo ad intravedere la perfetta unità che è solo in Dio. Un processo, questo di attrazione del differente verso l’unità, esemplificato da Coleridge attraverso Shakespeare e Milton, un’altra delle sue coppie contrappositive fornite di valore euristico: «Tutte le cose e tutti i modi dell’agire si plasmano novellamente nell’essere di Milton; mentre Shakespeare diventa tutte le cose, pur rimanendo per sempre se stesso» [coleridge 1991, pp. 252-3]. E analoga configurazione strutturale, all’interno del macrotesto shakespeariano, è vista assumere la coppia Hamlet I Macbeth:

Compare the easy language of common life in which this drama [Hamlet] opens, with the wild wayward lyric of the opening of Macbeth. The language is familiar […]. It is the language of sensa­tion among men who feared no charge of effeminacy for feeling what they felt no want of resolution to bear. […] a tragedy [Hamlet] the interest of which is eminently ad et apud infra, as Macbeth … is ad extra [COLERIDGE 1960,1, p. 18].

Una volta che la nozione della particolare intraducibilità incidente alla parola poetica sia stata acquisita, essa si interporrà inevitabilmente, per il critico, tra la sua propria parola e la parola del testo, o tra testo e testo. Quella nozione sarà di fatto responsabile di un’idea completamente nuova della testualità. L’intenzionalità del significare, si esplicherà per lui da quel momento tra due meccanismi – tra due software, per dirla metaforicamente -interagenti fra loro. Non solo la traduzione in senso proprio, ma anche, o forse specialmente, quella forma di traduzione interna, o circolazione dei testi, che è implicita nella critica letteraria, la coglierà attraverso e grazie a un interfaccia di intraducibilità.
Alla giunzione di mondo esterno e mondo interiore, e appartenente ad entrambi, il meaning si presenta come un sesto senso composto, non meno degli altri cinque, di corpo e di anima. O forse, dovremmo dire, il meaning giunge come un terzo testo, a celebrare finalmente le nozze di quei due antichi promessi: l’oggetto e la parola. Viene ad essere surrettiziamente introdotta una figura a chiasmo: da una parte la parola comporta sempre, in quanto meaning, un atto di traduzione dall’interno verso l’esterno; dall’altra la parola della poesia, che e parola più intensa di quella comune, una volta trovata non può più esser tradotta: e come dire che proprio quella parola non sopporta analisi. In un caso come nell’altro, il meaning, ossia l’intenzionalità del dire, viene a trovarsi al punto letteralmente cruciale della figura.
E’ soprattutto nei confronti dell’idea del meaning come intraducibilità che il critico diviene responsabile. Non meno del traduttore in senso proprio, egli si trova anzi a dover rispondere di una intraducibilità tramite un’interconnessione ulteriore di intraducibilità. Perchè è ovvio che anche le parole del critico saranno tanto più perfette quanto più intraducibili in altre parole della stessa lingua. Tutte le parole, non solo quelle più apertamente risultanti da un lavoro di disambiguazione. Se marchio di stile e l’intraducibilità di un passo di poesia, o di prosa, in altre parole della stessa lingua, quella stessa intraducibilità sarà il banco di prova ultimo del traduttore e del critico. I quali non potranno fronteggiarla che producendo a loro volta la propria intraducibilità. Nel lavoro sull’ intraducibilità – davvero la parte più preziosa del linguaggio umano, quasi la sua cellula germinale – il traduttore, il critico e il poeta operano come creatori di lingua.
Due risultati, entrambi importanti per il critico, mi appaiono a questo punto fronteggiarsi. Da una parte, il linguaggio della critica letteraria e diretto all’appropriazione, da parte del singolo critico, della parola giusta alla specifica facoltà della mente impegnata in quel singolo determinato atto di poesia. Dopo di che, nessuna ulteriore «traduzione» sarà più possibile, almeno per qualche tempo: dopo Coleridge, fancy non è più intercambiabile con imagination. Nessun critico, in qualsiasi lingua scriva, potrà non tener conto della disambiguazione realizzata in quel celebre passaggio della Biographia Literaria. D’altra parte, è soprattutto nei confronti della specifica untranslatableness di uno scrittore o di un’opera, laddove essa più inequivo-cabilmente si dichiara, che il critico, cosi come il traduttore vero e proprio, è impegnato. Due modi dell’intraducibilità così si fronteggiano: è una determinata e particolare occorrenza di untranslatableness quella che il critico, come il traduttore, si sforza di preservare attraverso la propria intraducibili­tà. Ed è una particolare occorrenza di intraducibilità, quella che egli si trova a distruggere attraverso la propria traduzione o il proprio saggio critico.
E l’intraducibilità che il traduttore e il critico incontrano, avendo a che fare col meaning, non riguarda la parola isolata, ma tutte le associazioni che la circondano in quella specifica occorrenza. Cioè quanto propriamente si vorrebbe tradurre. Certo, Coleridge aveva parlato di intraducibilità all’interno di una stessa lingua, ma tutto il postulato dell’educazione linguistica come educazione filosofica, non era fondato – e di lì la perfetta tematicità, nella Biographia Literaria, dei capitoli sull’educazione scolastica – sull’idea di una circolazione linguistica, soprattutto lungo l’asse temporale: antico/moderno? Tanto più dunque il dato della untranslatableness dovrebbe interferire con la traduzione, o con quella sua modalità più subdola, perchè non percepita come tale, che è la critica letteraria.
Dovremmo dedurre da questo l’impossibilita, o la vanità, la predestinata improfessionalità, o la pura strumentalità del compito non solo del traduttore, ma del critico? Seguendo l’indicazione data da Benjamin nel suo saggio sul Compito del traduttore [BENJAMIN 1962, pp. 37-50], proviamo invece a pensare la traduzione e il saggio critico come forme che ancora appartengono all’originale, in quanto ne portano a visibilità, e ad espressione, una sorta di «maturità postuma», potenzialmente già iscritta nelle sue parole fin dall’inizio. Traduzione e saggio critico contribuirebbero allora a portare allo scoperto quella «fatalità della lingua» che Giuseppe Ungaretti, a sua volta grande traduttore e poeta, vedeva affiorare, per l’italiano, nell’endecasillabo della nostra maggiore tradizione poetica.
Proprio le parti, di una poesia, o di una prosa, più stilisticamente marcate e all’apparenza intraducibili, verrebbero allora ad esprimere non già la differenza, ma l’affinità tra le lingue, il loro convergere verso una lingua superiore destinata a rimanere nell’implicito, sicché compito del traduttore, come del critico, sarebbe il far presentire al lettore tale nascosta parentela. La tra­duzione, lavorando sulla untranslatableness della lingua poetica, su quelle che Coleridge aveva chiamato le associations, ci dice dunque ancora qualcosa sull’originale. Proprio quelle «associazioni» infatti, ossia le parti più in­traducibili della lingua, con le quali inevitabilmente essa si confronta, si rivelano – lo scopriamo a cose fatte – il banco di prova essenziale. Perchè è traducendole, o facendone il tema di un nostro saggio – tentando di tradurre e trasmettere quanto in apparenza è più estraneo e periferico rispetto alla comunicazione – che facciamo sulla lingua l’esperienza definitiva e finale: ossia non quella della differenza, ma dell’uguaglianza delle lingue nella lin­gua. Con un ritorno, in certo senso, a quell’unità, a quell’appropriazione e inamovibilità della parola, che Coleridge aveva intravisto fin dall’inizio del suo lavoro di critico e di poeta.
Perchè era precisamente a questa fatale intraducibilità immanente alla parola che l’artista già maturo, per quanto ancora giovanissimo, di Kubla Khan, aveva dato rappresentazione quando genialmente aveva deciso di lasciare aperto lo strappo, e visibile la soluzione di continuità, tra l’introduzione in prosa di quel poemetto e i versi che la seguono. Al centro di quell’introduzione era stata posta, del resto, quella particolare manifestazione di intraducibilità che è l’impossibilità per l’immagine onirica di risolversi nelle parole della poesia. La «naturale differenza» dell’immagine dalla parola era stata già lì, da Coleridge, tanto precocemente quanto insuperabilmente chiosata. La scoperta era quella, nell’introduzione a Kubla Khan già implicita, della discontinuità della parola poetica rispetto alla natura la quale, come si sa, non facit saltus.
La tesi, nella fattispecie riferita a Wordsworth ma estensibile a tutto l’universo poetico occidentale, dell’intraducibilità come criterio di perfezione stilistica, non sarà che la ripresa e l’ulteriore elaborazione, a livello teorico, di quella giovanile intuizione poetica. II grigio addestramento del ginnasiale sul lessico omerico, avrà solo allora prodotto appieno il suo perfetto, il suo aureo frutto, di teoria.

²Cfr.MILTON, V., v. 481 :” bright consummate flow’r “ citato da Coleridge in esergo al cap. XIII della Biografia Literaria

Bibliografia

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  • COLERIDGE, S.T : Shakespearian Criticism, Raysor Th.M., ed., London, Dent, 2 vols 1960.

———— : The Notebooks of S.T. Coleridge, Coburn K., ed., London, Routledge & Kegan Paul, 3 vols.1973.
———— : Biographia Literaria, Engell J., Jackson Bate W., eds., London Princeton, Routledge & Kegan Paul, Princeton University Press, 2 vols.1983
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  • CONRAD, J.: Heart of Darkness, Englewood Cliffs, N.J., Prentice-Hall Inc.1960
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  • MILTON, J. : Paradise Lost, Elledge S., ed., New York-London, Norton & Company 1975.
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