La fine del realismo, iniziata in un’Inghilterra ormai padrona del commercio su tutti i mari, trova nei letterati più attenti gli afrori e le smanie sentimentali che dai giochi verbali e grafici di L. Sterne, dalle morbidezze di H. Mackenzie, dalle civetterie moralistiche di S. Richardson piomberanno, con i primi effetti devastanti dell’industrialismo, nei terrori e orrori del gothic romance. L’Illuminismo è servito una volta per tutte: l’Uomo della Ragione veniva sconfitto dall’Uomo del Sentimento. E. Burke avrebbe colpito al cuore la dolce armonia del Classicismo: «Nessuna passione come la paura priva con tanta efficacia la mente di tutto il suo potere di agire e di ragionare. Poiché, essendo il timore l’apprensione di un dolore o della morte, agisce in modo da sembrare un dolore reale. Tutto ciò, quindi, che è terribile alla vista è pure sublime»

[E. Burke, Ricerca sull’origine delle idee del sublime e del bello (1756), Milano, Minuziano, 1995, p. 119]. Più tardi Kant con la Critica del giudizio (1790) doveva considerare il sublime causa di una commozione del soggetto, diviso fra piacere e dispiacere per la grandezza esorbitante di questa figura estetica, per cui l’approccio appariva traumatico, uno scuotimento profondo che prende di fronte all’incommensurabile. La paura è dunque, come aura del sublime, il fervido vessillo dell’arte nuova affiancata alla sensibilità e agli umori del soggetto. A che si deve questa paura? Senza dubbio alla scomparsa graduale (Inghilterra) o improvvisa (Francia) del vecchio mondo feudale. L’Orbis Pictus è crollato: le rovine dei castelli rivelano la fine dell’autorità e dell’arbitrio signorile. Ma da quelle mura dissestate si muovono di notte, al chiarore lunare, ombre spettrali, fantasmi, mostri. Tutto ciò che è strano, diverso, anche il mostruoso, – aveva detto J. Addison in “The Pleasures of the Imagination [The Spectator, 1711] – produce piacere e quindi esalta le facoltà di osservazione. Così, lungo il fecondo dibattito sul gusto e sul pittoresco si era giunti alla scoperta del fruitore dell’arte: il lettore, lo spettatore. In effetti erano in due ad avere paura: colui che la metteva in scena, smarrito di fronte ad una crisi sociale e antropologica di vaste dimensioni affondata nel cuore stesso delle cose e delle parole, e colui, anzi coloro che subivano in silenzio, spaesati e immiseriti, le conseguenze laceranti delle rivoluzioni politiche e industriali con cui l’Europa passava dal XVIII al XIX secolo. In questi frangenti un curioso e significativo paradosso estetico poneva in parallelo David, il rivoluzionario, che ritraeva le scene madri del «Giuramento della Pallacorda» e Napoleone a cavallo nello stile aulico e freddo dell’antica Roma, e Goya, conservatore, che nelle serie di acqueforti dei «Desastres de la guerra», dei «Caprichos» e del potente «El sueño de la razòn produce monstruos», forgiava lo stile convulso e inquietante della nuova arte romantica. All’astrattezza razionale dell’incutere paura nella esaltazione della forza si affiancava il concreto sentimento suggestivo del timore per la terribilità dei nuovi tempi. Ma la paura, come sappiamo, ha due facce, due direzioni assolutamente diverse, anzi opposte: a) è un’emozione profonda di fronte alla presenza improvvisa e minacciosa di cose o persone che allarmano il soggetto aggredito e lo inducono a cercare attivamente una difesa e una via di scampo; oppure b) è un’emozione paralizzante dinanzi a una situazione o a uno spettacolo oltremodo crudele e immondo che induce il soggetto a ritrarsi in se stesso incapace di pensare e di agire. Ora questa netta formulazione dicotomica della moderna Psicologia tra una paura «positiva», comune a tutti gli esseri viventi, e una paura «negativa», specifica dell’uomo affascinato da un potere sovrastante, frustrato per la subitanea mancanza di riflessi e di immaginazione, era stata prospettata dalla celebre scrittrice di gothic romances, Ann Radcliffe che affermava in un articolo [uscito postumo sul New Monthly Magazine, vol. 7, 1826]: «Terrore e orrore sono tanto opposti tra loro che se il primo può espandere lo spirito e risvegliarne le facoltà fino al più alto livello di vita, l’altro contrae, raffredda e finisce per annientare quelle facoltà». Per la Radcliffe, come per la successiva età vittoriana, l’orrore costituiva un vero tabù, era il puro male, mentre il terrore (dal cui stato di suspence derivò la detective story) era pur sempre un avvertimento alla veglia. Di fatto nell’immaginario borghese ciò che blocca lo stimolo ad agire, a produrre – tipici emblemi di parata del self made man – risulta malsano, intollerabile. L’orrore visionario del voyeur sprofonda ben oltre l’inconscio fino all’elementare rigurgito peristaltico delle nostre funzioni fisiologiche: è l’incontro con l’es negli strati magmatici delle pulsioni rimosse, dell’interdetto, del disgusto. Questa libera rappresentazione delle ombre mostruose che ci portiamo dentro – scoppiata nell’età barocca dallo spaesamento delle comunità cattoliche di fronte alle lacerazioni prodotte dalla Riforma luterana che aveva spaccato l’Europa in due fra Nord e Sud – tornerà con gli scrittori romantici più antihegeliani nella loro discesa agli inferi (da E.T.A. Hoffmann a E.A. Poe, da Ch. Maturin a L. Tieck, da Ja. Cazotte a C. Nodier, da M. Shelley a H. de Balzac) a descrivere i tormenti profondi di un io dissestato, diviso, crudelmente chiuso in se stesso. Terrore e orrore domineranno così nella letteratura come nelle arti figurative dell’età romantica inaugurando – nei temi del doppio, del demoniaco, dell’attraversamento della soglia fra reale e irreale – la grande e inquietante stagione del fantastico.