Il viaggio è la sostanza stessa dell’esperienza romantica – il viaggio dell’autoaffermazione individuale che, si configuri come circuitous o come erranza senza fine, è, con le sue ansie, incubi, speranze ed estasi, fonte di una inesausta ricerca di sempre nuovi linguaggi: tanti quanti i responsi che la Sibilla scrive sulle foglie o i granelli di sabbia che le scivolano dalla mano e che, nella loro fluente molteplicità, sembrano riflettere la mutevole varietà dell’esperienza umana e l’impossibilità di un’interpretazione univoca, e quindi l’ironia del mistero in cui siamo immersi. Affidare il proprio responso alle foglie per poi lasciarle al capriccio del vento, che è l’atto in cui s’incarna la leggenda della Sibilla, appare infatti come un invito alla quest e all’interpretazione – un invito che si rivela però una sfida beffarda e senza senso perché la terra dove ci trasporta la figura della profetessa è quella del mito dove non esistono quest, ma solo l’abbandono alle “certezze” di Dioniso.
Per i romantici, che nel nome di Apollo si recano all’antro dell’antico oracolo, c’è il solo destino di Orfeo: non riavranno indietro il paradiso terrestre, che, luminoso, rifulge sullo sfondo, ancor più struggente nel contrasto con le rovine che ricordano, impietose, l’avvento del Tempo e la vanità dei desideri e delle imprese umani. Il noncurante abbandono delle parole scritte alla volubilità del vento sembra irridere alla presunzione del linguaggio di poter riflettere la verità segreta del mito. Il logos  nelle mani del mito si rivela uno scherzo ingannevole, foglie che frusciano senza dire nulla più di quello che dicono come voce della Natura.  Da Claude a Wilson a Turner, il tema di Apollo e la Sibilla ripropone emblematicamente tutta l’ambigua complessità e duplicità del rapporto del viaggiatore romantico con il Mito e la Natura.
La pittura di paesaggio e la letteratura di viaggio sono i generi in cui questo rapporto è più immediatamente visibile perché centrale è in essi il linguaggio del paesaggio, non misto ad altri linguaggi come nella poesia e nel romance.
Quanto ha scritto Meyer Abrams, nella sua analisi del rapporto tra i romantici e la natura     (in Natural Supernaturalism ) trova riscontro e illustrazione nell’ “invenzione” del paesaggio, ossia nel discorso sul paesaggio che si vien costruendo nel corso del Settecento, in rispondenza ad un disegno di appropriazione e di controllo dettato da  un’esigenza di sfruttamento non solo economico ma psicologico, di rassicurazione interiore. Il dibattito teorico sulla visione e “costruzione” del paesaggio con la definizione di categorie estetiche come quelle di Burke e Gilpin, riflette questo rapporto di attrazione-repulsione, dipendenza-desiderio di emancipazione dell’uomo romantico nei confronti della natura – un rapporto conflittuale, anche se proiettato in un’ideale soluzione armonica, più spesso decantata che davvero realizzata o sentita. Le teorie estetiche riflettono le sue tentate strategie per padroneggiare il fenomeno: nel giro di meno di un secolo, infatti, da “specchio della divinità”, com’è per la Radcliffe, la natura diventerà una stark mother “red in tooth and claw”, secondo l’efficace immagine di Tennyson (In Memoriam), che diventerà un luogo comune nel dibattito intellettuale evoluzionistico del secolo Ottocento. L’evoluzione del linguaggio del paesaggio in letteratura è strettamente legata, oltre alla pittura (nel cui ambito lo si fa nascere nel Seicento), allo sviluppo del viaggio borghese, del Grand Tour attraverso l’Europa e, successivamente, del turismo “domestico”.
Tutta la cultura e sapienza espressiva del paesaggio tradizionale, classico e ideale, concorrono, come ha spiegato Kenneth Clark (in Landscape into Art, 1976), all’espressione di una nuova visione, che è varia e mutevole perché individuale e personale. Il viaggio e paesaggio diventano specchio e racconto autobiografico, nel senso più vasto del termine: non tanto o non solo autobiografia del singolo individuo, ma dell’ Individuo borghese, ossia dell’uomo romantico. Il realismo della rappresentazione, pittorica o letteraria che sia, è sempre fantastico e “medianico”, per usare la parola di Frye: tocca l’inconscio collettivo, ed è quindi allegorico, prima ancora che simbolico.
Non ci spiegheremmo lo straordinario successo dei Mysteries of Udolpho, ben al di fuori dell’ambito anglosassone, e la sua profonda presa sull’immaginario della successiva generazione europea, se non si tenesse conto che questo ” poema melodrammatico in prosa” è una grande allegoria del rapporto, complesso e composito, della psiche romantica con la natura, che, vera protagonista del romance, è ritratta proprio come paesaggio, in tutti i suoi aspetti, dal bello al sublime al pittoresco, e non solo con l’occhio del pittore, ma con la sensibilità del poeta e del musico. Non è un caso che i contemporanei considerassero The mysteries of Udolpho letteratura epica, e che Keats riconosca poi nella sua autrice la madre della snsibilità romantica.
Nella vasta eredità radcliffiana il lascito più importante, nel senso di più influente, è indubbiamente la traduzione del pittoresco in letteratura. Com’è evidente dal suo Journey , la Radcliffe traduce consapevolmente tutti i criteri della bellezza pittoresca, dalla varietà alla novità, ma anche il gusto edonistico per il “consumo” della natura. In un periodo in cui il paesaggio inglese muta profondamente in rispondenza a trasformazioni sociali che sconvolgono il vecchio paesaggio tory, con l’invenzione urbana del countryside ela moda dell’ improvement , che deve mostrare e avvallare i nuovi padroni della Gran Bretagna e il loro rapporto “economico” con la campagna, i libretti di Gilpin istituzionalizzano il nuovo sguardo e praparano al nuovo secolo imperiale. La grande voga di Gilpin e del pittoresco (in Inghilterra un must proprio come il romance della Radcliffe, ma tradotto subito anche in francese) è legata a un grado di mobilità senza precedenti, soprattutto negli ultimi decenni del Settecento – mobilità interrotta, per quanto riguarda i viaggi in Europa, e soprattutto per gli anglosassoni, negli annj della Rivoluzione Francese, e ripresa poi con rinnovato vigore dopo la Restaurazione nel 1814: sulle orme di Emily St Aubert, gli scrittori e gli artisti romantici faranno del viaggio in Italia e nel Mediterraneo – il paesaggio del mito e della luce – la fonte della loro ispirazione.
Se è con l’arte di Turner che, com’è stato ripetutamente riconosciuto, il paesaggio romantico raggiunge il suo acme, il quadro del 1823 che ha cme protagonista il paesaggio di Baia  – The Bay of Baiae, with Apollo and the Sibyl – sppare come l’illustrazione più adeguata per la copertina di un volume come questo, che, sotto il titolo di Viaggio e Paesaggio, raccoglie parte degli atti del Grande Concegno Internazionale dedicato a The Language(s) of Romanticism (organizzato dal Centro Interdisciplinare di Studi Romantici e dalla British Association for Romantic Studies) tenutosi a Bologna nel febbraio 2002.

Questo numero de La Questione Romantica è stato curato da Beatrice Battaglia.