Letteratura e fotografia
di/a cura di: Albertazzi Silvia
La fotografia, fin dal suo apparire, ha influito sulla letteratura sia a livello tematico sia sulla stessa scrittura, mutandone attitudini, modi e ritmi e aumentandone l’autocoscienza. Il volume considera tanto la tematizzazione attraverso il ricorso a elementi quali il ritratto fotografico, l’album di famiglia, la foto vernacolare e l’apparizione del fotografo in veste di personaggio e/o narratore quanto l’imporsi di una vera e propria “scrittura fotografica”. Da Nathaniel Hawthorne ai photo-books contemporanei, dal dagherrotipo al digitale, si propongono varie letture (e usi) della fotografia in letteratura: dall’utilizzo metanarrativo della figura del fotografo alla metafora della fantasmatizzazione, frammentazione e perdita di identità; dall’ausilio per la memoria all’esaltazione del feticcio e del simulacro; dalla riflessione sul tempo e sulla mortalità alla poetica dell’istante decisivo.
“Fotografia, ovvero, “scrittura di luce”. Nel termine, coniato, secondo alcuni, dal pioniere inglese del “disegno fotogenico” William Henry Fox Talbot, secondo altri, dall’astronomo tedesco Friedrich Wilhelm Herschel, è già presente l’idea di scrittura: la fotografia si pone, fin dal suo nascere, come un nuovo modo di scrivere (di descrivere, di raccontare) la realtà, attraverso tecniche e metodi coscienti, scientifici. Il fotografo, “narratore di apparenze” consapevole dei propri mezzi, racconta nella sua particolare scrittura il mondo in cui vive, e raccontando quel mondo lo ricrea nella sua lingua, la fotografia, una lingua nuova, che riproduce il reale segmentandolo, inquadrandolo in visioni rettangolari e, in questo modo, inserendolo nella storia.
«Da quasi 180 anni è la fotografia a determinare il modo in cui l’uomo guarda la propria storia e percepisce il mondo», ha affermato il fotografo giapponese Hiroshi Sugimoto. Non può stupire, allora, che i letterati fin dalle origini si siano interessati alla fotografia e ai suoi prodotti, ora osservandoli con apprensione e disprezzo, ora con curiosità e interesse, riconoscendovi persino possibili metafore o simbolizzazioni del processo artistico. A partire dalla fotografia, non pochi scrittori arrivano così a riflettere sulla stessa scrittura, sulle sue finalità, sulla possibilità di frammentare anche in letteratura, come avviene in fotografia, la visione del mondo, di fare, in altre parole, anche della rappresentazione narrativa una storia di sguardo.
Dall’apparizione del dagherrotipo, dagli anni Quaranta dell’Ottocento a oggi, la fotografia appare come tema privilegiato nella letteratura universale: è quasi impossibile trovare un romanzo in cui non si faccia riferimento a un’istantanea per rievocare il passato, rinforzare una descrizione, documentare fatti accaduti, dimostrare l’attendibilità di eventi narrati, o, in senso opposto, evocare l’inesprimibile, il soprannaturale, portando avanti fino ai giorni nostri l’dea di Talbot che, già nel 1834, a proposito dei suoi primi esperimenti fotografici, parlava di «arte di fissare un’ombra». Roland Barthes ha osservato che «[l]’età della Fotografia corrisponde precisamente all’irruzione del privato nel pubblico». Con il ritratto fotografico il privato s’insinua nel sociale, il soggetto si guarda nel rettangolo di carta che lo riproduce e si vede doppio, altro da sé. La fotografia rende visibile l’inquietante assioma di Rimbaud secondo cui «io è un altro». In letteratura, il personaggio-fotografo, soprattutto quando, oltre che protagonista, è anche narratore, raffigura al meglio la «dissociazione della coscienza d’identità» propria della fotografia.
Ma è soprattutto attraverso la moda dell’album di famiglia che il privato invade il pubblico: la famiglia, già asse portante del romanzo borghese ottocentesco, si autorappresenta in fotografia, secondo un immaginario che ne esalta le qualità sociali e morali. La narrativa non manca di tematizzare la foto familiare, soprattutto per metterne in luce le incongruenze, il non detto, ciò che sta dietro e oltre l’inquadratura. Allo stesso modo, tutte le tipologie di foto vernacolari – istantanee di viaggio, foto per documenti, persino foto sbagliate, rovinate o scartate perché mal riuscite – trovano spazio in letteratura, così come, ovviamente, le foto artistiche, i riferimenti a scatti d’autore, le immagini di guerra, i reportage giornalistici.
La fotografia, comunque, non è soltanto un tema attraverso il quale narrativa e poesia riflettono sul reale, sul visibile e sull’invisibile e spesso indagano sulla propria funzione e sul proprio stesso farsi. Sotto l’influsso della fotografia, la scrittura letteraria cerca anche di riprodurre quello che Cartier-Bresson definiva «il ritmo nel mondo delle cose reali», ovvero l’attimo in cui gli elementi, gli oggetti come le persone, rivelano la loro essenza, irradiano una propria luce, si epifanizzano.
Ma non basta. Poiché la fotografia «non si limita a riprodurre il reale, ma lo ricicla, secondo una procedura della società moderna» (Sontag), anche la narrazione finisce per offrire una visione “riciclata” della realtà, usando la fotografia per riconvertire i propri materiali. Per dirla con John Szarkowski, che nel 1978 curò una mostra intitolata Mirrors and Windows (“Specchi e finestre”) presso il MOMA di New York, del cui dipartimento fotografico era allora direttore, dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni nostri, la fotografia-specchio, che parla del suo autore ed è mezzo espressivo, si “ricicla” come metanarrazione, mentre la fotografia-finestra, che parla del mondo ed è mezzo esplorativo, si fa ora meta-linguaggio, ora nuovo modo di guardare al e oltre il reale, fino ad arrivare, ai nostri giorni, all’emergere di «una nuova tipologia di fotografia, né specchio né finestra, bensì mosaico» (Richtin), che trova un equivalente nella narrativa postmoderna, anch’essa costituita da «sentieri multipli che conducono a nuovi percorsi esplorativi».
Per finire, nell’incontro di fotografia e testo, che caratterizza i libri illustrati, i foto-testi e i photo-books, immagine e parola si incrociano e si completano, mentre la componente autoriflessiva o metanarrativa si manifesta finalmente nella sua più profonda essenza di desiderio di condivisione.
Lo scrittore che riflette sulla propria scrittura attraverso la fotografia, così come quello che dalla fotografia parte per reiventare il proprio sguardo e la propria lingua, dai tempi del dagherrotipo all’era del digitale, cerca implicitamente la complicità, o quanto meno, l’ascolto del lettore, facendo riferimento a un mezzo che nasce da una esigenza umana, la condivisione del veduto. Come la fotografia, la scrittura si fa allora «una relazione speciale tra esseri umani, […] l’ebbrezza di poter dire al nostro simile, perfino a distanza, “ho visto questo, guardalo [leggilo] anche tu”» (Smargiassi).
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